Itaca – la deviazione dall’equivoco?
Una ipotesi di lettura poetica di Alberto Bevilacqua
George Popescu
Più che un narratore, Alberto Bevilacqua si è sempre definito un poeta. Questa insistenza nell’affermarlo, ripetutamente e con un orgoglio quasi sfidante, finisce per mettere in guardia l’interprete della sua opera. E’ per questo che l’operazione di determinare il punto nodale della sua intera avventura intellettuale appare più che necessaria. Ma quanto di difficile è definire, identificare il profilo di un poeta, la poesia non ci si abbandona se non con delle difficoltà spesso insormontabili: generata in principio dalle zone più profonde e più oscure dell’anima, laddove la verità è soltanto un fantasma, sottomessa dall’ombra da cui non riuscirà mai liberarsi totalmente, la poesia se ribella di fronte ogni tentativo di afferrarle un significato; quando assume una dimensione di una intima autenticità, la poesia ci appare, oltre la sua fisionomia misteriosa, una provocazione; una grande, quasi impossibile sfida, come già detto. La poesia è una linfa; o forse germoglio che spinge dal profondo, infatti, dal nulla verso una luce ancor di più indefinibile. Non è, come così facilmente se pensa, espressione della personalità, ma, con le parole di Eliot, “un modo per sfuggire dalla personalità”. E dove sfuggire? Nelle apparenze della realtà? Nel chiasso del reale oppure nelle insidie del quotidiano? Forse nei margini, come voleva Mandelstam. Nei margini, in quel topos u-topos, in cerca di segnalare che il centro è sempre un terminus: una fine, emblema della immobilità; dello statico.
Rispetto a tante altre arti, la poesia è sostenuta più da silenzi che da parole; non ha a che fare con discorsi, non dice, suggerisce, ma forse neanche questo; genera, proponendo un incipit che finirà per circoscrivere il vuoto, che poi, saturato da se stesso, lascerà configurarsi soltanto una visione della sua precarietà.
Chiedo scusa per questa introduzione che può sembrare un po’ retorica. Ma il vero intento è solo di identificare senza alcuna pretesa di esattezza, ciò che in Alberto Bevilacqua rintracciamo come scelta di natura poetica. Indubbiamente non si tratta di un semplice orgoglio, tanto meno di quella superficiale appropriazione della poesia nelle approssimazioni modali, come, ad esempio, uno slogan pubblicitario. La poesie definisce in questo caso un modus vivendi, anzi, direi, l’assunzione di una ferita esistenziale, una prova di qualcosa incontrollabile, un datum, quasi un destino. E, poi, sulle trasformazioni di questa ferita-datum nel corso del fare letteratura – fare nel significato del poiesis, antico e medievale – ci si deve sondare con degli strumenti perfezionati nel profondo della creazione bevilacquana. La poesia si presenta come un legame diffuso in tutta la sua opera, così ricca e quindi di una complessità ingombrante, mi fermerò per momento soltanto ad alcuni esempi sui quali riflettere utilmente.
Innanzi tutto, a proposito del mio titolo: perché Itaca? e perché deviazione? e quale equivoco? Sempre con interrogativo.
Itaca in quanto un antico e, per dire così, qualificato luogo che denuncia uno tra i significati più famosi, più emblematici e forse anche più produttivi della nostra cultura occidentale: topos di quel novalisiano zum Haus, a casa, che per Bevilacqua è rappresentabile della sua città nativa e dei dintorni di essa; in breve, il padano, se non sbaglio. Itaca sarebbe, quindi, punto di partenza e punto di arrivo; immoto nella geografia reale, ferito invece di una mobilità in eccesso, nell’intimità dello scrittore e nelle pagine della sua opera. Itaca anche perché il lettore ha sempre dinnanzi la figura di una Penelope, incarnata da Lisa come Madre amata, sempre in attesa di quel Ulisse-Autore, in veste di Io narrante, pellegrino per forza o per destino e che porta con se dappertutto non tanto la nostalgia – che di fatti resta il vero motivo omerico – quanto questa l’intera sua Itaca.
Ma esiste, fortunatamente, quella famosa e mirabile lirica del poeta Constantin Kavafis dal tittolo, appunto “Itaca”, una vera chiave interpretativa, su una linea che viene segnata da un procedimento in apparenza semplicemente descrittivo:
“Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia d Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
I Ciclopi e Lestrigoni no certo,
ne’ nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai doti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la sua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”
E allora cosa vuole significare Itaca? Per Kavafis, anche se non soltanto questo, Itaca significa viaggio, l’essere tutta la via sulla strada “che sia lunga”, una rappresentazione che ricorda, penso, quella definizione yaspersiana del filosofare e cioè essere sulla strada. Il viaggio è, certo, di Ulisse, ovvero di un Ulisse ritrovabile dentro ognuno di noi, addormentato, a volte muto, ma sicuramente vivo.
E presente. Itaca, quindi, come punto ipotetico – mitico anche – del ritorno. Casuale o eterno? L’una e l’altra, a seconda delle nostre disponibilità. Del destino, non fatalmente dato, bensì conquistato. Tramite, certo, le proprie avventure ed esperienze di cui parla anche Kavafis.
Per Alberto Bevilacqua, a mio avviso, Itaca non è più “una strada verso…”; oppure non è soltanto questa strada, ma una realtà presente, che condivide ugualmente nostalgia, fervore, amore, ribellione, passione, scelte decisamente scelte o rifiuti, dolore, angosce e grandi gioie. Forse anche felicità, se per felicità si intende qualche condizione di riposo e di pacifico ritiro dal malversante quotidiano.
Itaca significa questa volta un topos vivo, presente, verificabile e verificato col raggiungimento dei piedi e soprattutto del cuore: il luogo dove la geografia si confonde e si attesta con la figura della Madre. E la Madre, con maiuscola, diventa un rinvio non solo ad un mito, ma ad una vera e propria mitologia, e nello stesso tempo alla sua simbologia assunta in propria persona, in quanto vissuta.
Sarebbe, penso, anche questa distinzione un punto di partenza per identificare le particolarità della scrittura del Nostro: una Terra, nel significato più ampio del termine, dove abita Hestia, l’antica dea del focolare, che raffigura, secondo Jean-Pierre Vernant, il simbolo e il pegno di fissità, di immutabilità, di permanenza, centro fermo a partire dal quale lo spazio umano si orienta e si organizza ed è per questo che Hestia può identificarsi, per i poeti soprattutto, con la terra, immobile al centro del cosmo. Direi, al centro del mondo.
Hestia-Terra, Hestia-Madre: ousia, in greco, cioè “l’essenza fissa e immutabile”; l’ambito di Hestia, sta scritto in alcuni testi antichi, è l’interno, il chiuso, il fisso, il ripiegamento del gruppo umano su se stesso. In questo simbolo io penso che sia attendibile identificare la figura di Lisa nelle opere di Bevilacqua, almeno in quelle costruite in coppia sotto il magico titolo Tu che mi ascolti: tutti i due, infatti, opere poetiche.
E non, come si può ipotizzare frettolosamente, in registri diversi: esiste un solo registro, organicamente poetico, ma presentate in forme diverse. La problematica, il trama sono comuni; soltanto le tonalità sono squisitamente diverse; come se un musicista, lui solo, interpretasse in confronto una partitura a vicenda al violino e al pianoforte.
Questione di tensione, e di disponibilità. Ma le due opere possono essere prese anche da un punto di vista contrappuntico: abbiamo, da un lato, il libro Tu che mi ascolti. Poesie alla madre, e dall’altro, lo stesso titolo per un libro strutturato su uno schema di monologo, ma in cui interferiscono le due voci dei protagonisti, madre e figlio, che, con la fortunata espressione-chiave dell’autore, diventano “un duetto per voce sola”.
Duetto, dunque: ma col andar avanti del discorso, si crea uno strano sentimento polifonico, maturato appunto tramite l’idea di ascolto, parola, anche questa, chiave, che fa riferimento ad alcune modalità di terapie.