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Saggio uscito sulla rivista “Fermenti” di Roma n. di settembre/ Eseu apărut în revista „Fermenti” din Roma în nr. din septembrie a.c.

23 September 2021
Autor

Claudio Magris: la doppia anima ovvero la sfida della diversità

di George Popescu
La critica ha accusato, sin dall’inizio, vale a dire, fin dalla sua prima
importante opera, Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, la
difficoltà di determinare, in una maniera soddisfacente, non solo una precisa
casella in cui far rientrare Claudio Magris, ma anche di definire, in termini
abbastanza positivi, la tipologia delle sue opere letterarie. Senz’altro, la
difficoltà è vera, e funziona, a mio avviso, come una provocazione al lettore,
ma anche come una formula della scrittura che presieda ottimamente le doti di
un intellettuale pronto ad affrontare una vasta gamma delle domande inquietanti
del nostro tempo.
In effetti, per Claudio Magris, figlio di un ambiente multi-culturale e plurilinguistico, quindi, “uomo di confine”, come si autodefinisce, la formazione
germanistica non pare (in quanto non è) soltanto un semplice percorso
curricolare, didattico-accademico. È, in realtà, una questione di opzione di
destino, e, se dobbiamo identificare dei modelli della sua scrittura ce ne sono
tanti, a partire da Goethe, attraverso Nietzsche, Hofmanstahl fino a Musil.
Ma in che cosa consiste questo tipo di scrittura? Né narrativa, né saggio, né
critica (tradizionale, se ammettiamo che esiste ancora), né memorialistica,
né storiografia, né filosofia, né giornalismo sia esso la testimonianza di un
intellettuale per la sua epoca, con tutta la responsabilità di un simile impegno;
invece, la scrittura di Magris rappresenta tutte queste insieme.
Questa premessa ci aiuta, forse, di poter delineare meglio la struttura di
una’opera plurale, pluriforme, proteica, ricca di significati richiedendo, questi,
sempre altre e varie strutture significanti; oppure di valutare forme fluttuanti,
fluenti a seconda di come scivola lo sguardo dell’autore con lo scorrere di un
fiume, col passeggiare nel Giardino Pubblico triestino, l’andare a piedi, nel
pomeriggio o di sera per le vie di una città che coinvolge, nella sua geografia
più intima, in uguale misura montagna e mare. Perlopiù, ci può aiutare ad
identificare il suo tentativo di armonizzare il volo di un uccello di là dell’orizzonte
in cui, appena sparito, l’acqua continua a persistere nella memoria della vista
e porta con sé una risonanza di un’idea, di un libro nell’immaginario di un
personaggio.
C’è, dall’altro canto, in Magris, un’intrepida attenzione a differenziare,
prima, ad armonizzare, poi, le voci di una sua pagina, sia questa di narrativa o
di saggistica: una cosa sarebbe la voce del passato che irrompe nella memoria,
a parte che si tratta della voce riconosciuta nella “biblioteca” del nostro sapere;
Fermenti 2
e un’altra cosa è la voce, spenta nell’oblio collettivo, di un anonimo che non
ha lasciato nessuna testimonianza tranne, forse, un nome, e che lo scrittore
sostituisce per portarlo alla luce del presente. Ma esiste, in fine, anche una voce,
per così dire, “viva”, del presente immediato, sempre sorvegliata dallo sguardo
ai dettagli, alle abitudini quotidiane, nascoste, anch’esse, nel linguaggio.
In questa direzione, Magris rappresenta, l’abbiamo già anticipato, uno
scrittore per il quale la letteratura è, perché così dovrebbe essere, una sfida. Ma
se si può dire la stessa cosa della letteratura in generale, la sfida del Nostro è,
aggiungiamo, una continua e acuta sfida della diversità, del diverso, dell’altro.
La provocazione, vale a dire il fine di ogni opera d’arte, parte dalla zona multietnica e multiculturale cui appartiene l’autore, nella quale la coabitazione e
la convivenza sono ormai diventate quasi luogo comune, id est un modello di
condivisione. Condivisione, sì, non obbligatoriamente degli stessi valori, ma
dei valori, in parte, diversi, portati allo stesso livello di uguale ed orgoglioso
rispetto reciproco, Magris prende in esame la diversità non solo come un’altra
faccia dell’identità, ma come l’identità stessa, se si fa ricorso ad un sillogismo
della logica elementare. Questo rappresenta, mi pare, uno dei fili rossi che
attraversano il suo Danubio e che si definisce come il vero e proprio topos
della sua intera opera.
Oltre questa problematica così presente, così provocatoria in Magris,
sussiste, in ogni sua opera, un altro tipo di approccio del diverso, della diversità
e cioè al livello di una poetica che coinvolge il rapporto fra soggetto e oggetto,
fra l’io narrante, l’io scrivente e il protagonista / i protagonisti, come nel generale
rapporto soggetto-mondo, nella linea della classica alterità io/altro.
Abbiamo scelto, per illustrare questo rapporto, il romanzo Un altro mare,
forse il più “narrativo” fra i libri dell’autore. Nello stesso tempo, il testo di Un
altro mare, oltre al fatto che include nel titolo la parola altro, che noi prenderemo
come parola-chiave, parola-spia nel nostro tentativo di decifrare la figura della
scrittura di Magris, circoscrive anche la problematica dell’acqua, del mare, altro
dominante topos dell’autore. Tralasciando la ricca semantica di questo termineconcetto in tutte le altre opere dell’autore, prendiamo in esame, cercando di
seguire un modello ermeneutico, i suoi vari connotati in questo breve romanzo.
Ci si offre, sin dall’inizio, quasi tutta la problematica letteraria di Magris; ma
non solo, se pensiamo che si può identificare, insita in qualche parabola, anche
ciò che possiamo chiamare l’impegno civile, politico, nel significato antico di
questi attributi: e ciò, il binomio vita / arte come una omologazione sfidante,
l’apertura verso il mare, un mare come una realtà già data, in quanto “gettata”
(sulla scia di quel heideggeriano es gibt, espressione che rinvierebbe al destino
umano).
Quindi, il mare come una metonimia del cosmo, metafora che sta anche
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per la morte, luogo, come suggerisce l’autore, primordiale, aurorale, per il suo
ambiguo simbolismo: il simbolo della vita, del vivere, della creazione, del
movimento perenne per schiudere nuovi orizzonti davanti all’uomo in cui vive
ancora un Ulisse. Un viaggiatore che va in due direzioni, forse opposte: verso
la sua Ithacae e verso le colonne di Ercole. La prima indica lo spazio dove c’è
da sempre Penelope, in un’attesa che pare infinita, e che sta tessendo la tela,
operazione che potrebbe simboleggiare, com’è noto, lo scrivere. La seconda
direzione suggerisce un viaggio rivolto alla conquista dell’ignoto. Tuttavia,
esiste, si sa bene, un simbolismo negativo del mare. Lo dice Magris in un suo
intervento ad un convegno su Nievo:
“Il mare ha avuto per secoli anche una valenza simbolica negativa. Le acque
amare, gli abissi come simbolo del mare, l’elemento infido, ostile, incerto; il
grande sudario che chiude l’ultima pagina di Moby-Dick di Hermann Melville,
il naufragio di Ulisse in Dante […] il mare che logora, che smacca, il mare di
‘Ntoni nei Malavoglia di Giovanni Verga. […]”.
C’è proprio nell’ incipit del libro quasi tutta la problematica di Magris
scrittore e saggista: il mare, e con esso il viaggio, per il momento soltanto come
una promessa, come un invito a partire in cerca di quell’infinito che suggerisce,
in fin dei conti, la stessa semantica simbolica del mare, e, subito dopo, abbiamo
il topos geografico per eccellenza, Gorizia, dove vive un mondo plurinazionale
con identità politiche e culturali diverse, che sono da sempre costituite come
entità di sfida alla alienità e alla alterità.
Non insisto più su questo topos, così ben noto, poiché troppo tematizzato
da Magris stesso in tante dense pagine. C’è anche un’altra sfida nell’incipit
del libro: la metafora, diremmo, ontologica dello scrivere, ritrovabile in quella
mancanza, sul banco del vecchio imperiale Staatsgymnasium di Gorizia, del
calamaio (visto come “l’occhio di un ciclope”), e l’inchiostro che getta verso
le finestre dei riflessi azzurri non ricordando nient’altro che “la lontananza del
mare”. E così il mare si fa già presente, anche se non si tratta né dell’Adriatico,
né del Mediterraneo, ma di un altro mare, appunto l’oceano. L’oceano come
spazio del viaggio. Questa omologazione di piani (realtà-finzione-marescrittura) ci fa pensare ad una particolarità della letteratura di Magris come una
forma di testualizzazione del reale, sia questo l’ambito quotidiano, la Storia, con
la maiuscola, oppure una vicenda banale con gente comune, ma anche, come
accade a volte, con dei protagonisti ripresi dalla biblioteca, da un orizzonte
culturale di spicco, forse spesso dimenticati. La massima provocazione resta
allora per l’autore il tentativo di portarli alle superficie del mare e, cioè, sotto
gli occhi del lettore (scrittura-acqua-mare). Inutile sostenere che, in questa
prospettiva, una pagina possa funzionare anche come un recupero metaletterario ossia meta-filosofico.
Ecco Enrico Mreule contemplare il mare, con l’occhio, “vecchio filologo”
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anch’esso, convocato a tradurre i palpiti impercettibili delle onde in luci e colori.
E rivolto al vuoto: il sentimento intimo dell’infinito che si affaccia davanti, ossia
quello interiore, di un intellettuale che sta proprio per affrontare la tentazione,
considerata vana, di rappresentare il mondo per mezzo della scrittura. Qui
abbiamo un secondo topos del libro: il richiamo di un personaggio, Carlo
Michelstaedter, che funge da “sosia” di Enrico in uno stupendo gioco di ruoli
intercambiabili in cui il binomio vita-arte, realtà-pensiero prende il significato
più pesante, più preciso della poetica narrativa di Magris.
Infatti, assistiamo, in Un altro mare, ad un atto-processo di confusione voluta,
di sdoppiamento della persona di Enrico (non dimentichiamo, personaggio
reale, culturalmente identificato): egli resta così per un lato se stesso, con una
biografia sancita da prove documentarie, ma conservando ancora una larga
zona di insicuro, di non-noto, spazio cioè aperto all’intervento immaginativo
dell’autore. Per altro lato, Enrico sostituisce Carlo Michelstaedter, il quale
rappresenta, non è difficile di immaginare, appunto la figura dell’Altro; ma si
tratta, al nostro avviso, di un altro che, tramite il gioco immaginario assunto
dalla poetica di Magris, arriva a diventare sé. Cosicché ci si arriva ad avere, sulla
linea del progetto narrativo, una specie di vita post-mortem di Michelstaedter;
certo, una sua possibilità, una replica, un riflesso nello specchio, virtuale, per
dirlo in termini così di moda. Ma questo processo non finisce qui: Enrico
continua a vivere come se la vita dell’altro, Carlo, avesse continuato e ce ne
è la testimonianza i frequenti rimandi alla sua breve biografia, tragicamente
interrotta per propria scelta, ma anche il suo pensiero che funziona come una
specie di libro magico. In definitiva, Enrico è costruito, come personaggio, in
una diretta discendenza del pensiero michelstaedtiano e, dunque, possiamo
supporre che nella stessa linea si inserisce, almeno in questa sede, anche l’autore,
dissociato, come è, sul piano narrativo, tra l’io narrante e Enrico stesso.
A questo punto ci pare che tutte le tre istanze narrative e cioè, Enrico, l’io
narrante e Carlo, siano ugualmente disputate da quella terza persona che assume
la voce auctoriale della storia: l’autore, appunto, come deus asconditus, che sa
tutto, ma tace per lasciar al lettore non soltanto l’andamento delle vicende,
l’andar avanti della trama, ma anche la responsabilità, – ultima e forse definitiva,
di tutto: l’etica dell’interpretazione.
Ci sono disseminate nelle pagine del libro tante idee di Michelstaedter,
soprattutto le due fasce del suo pensiero, sempre in un fertile confronto, la
persuasione e la retorica, con una minima, appena avvertita distinzione, su cui
mi pare che punti, con la sua intelligenza, Magris. Il paradosso michelstaedtiano,
espresso sin dall’inizio del suo capolavoro, possa funzionare come una vera
scommetta dello scrittore, di ogni vero scrittore, fatto con il suo lettore, modello
oppure no:
“Io lo so che parlo perché parlo, ma che non persuaderò nessuno”, pur
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invocando Michelstaedter, in propria causa, Sofocle, insieme con il quale
aggiunge che questa “disonestà” è dovuta al fatto che la retorica “mi costringe a
forza a farlo”. Come sappiamo, il pensiero michelstaedtiano – schopenhaueriano
e nietzscheano, ma molto impregnato della filosofia greca, Platone innanzitutto
– è di un nichilismo raffinato, sottile come l’ondeggiare di un mare, sempre altro
fino ad imporre il rifiuto a ciò che lui chiama filopsychia, e cioè l’attaccamento
estremo alla vita: il desiderio della continuazione della vita segnata dalla
nascita che è dunque vita solo perché ha avuto origine da una nascita e che
falsa l’identificazione tra l’essere vivi – l’essere nati è sottoposta alla doppia
dipendenza dal timore della morte e soprattutto dalla morte stessa.
La vera essenza della vita, di una vita, consisterebbe nel vivere intensamente
nell’ultimo eterno momento che precede la morte; lui, il Goriziano condanna
quei non persuasi che “vivono per vivere, non per morire”, e la loro illusoria
persuasione sarebbe la “paura della morte” eccetera, eccetera…
Quindi, per ritornare alle voci distributive del romanzo, Un altro mare,
Enrico, come uno che sente di continuo alle sue spalle lo sguardo accusatorio
di Carlo, cerca di non vivere per vivere, anche se finisce per farlo, vinto dal
paradosso dello stesso suo amico, ora ombra accompagnatrice, ora angelo
custode, un Virgilio il quale, oltre che guidare il suo Dante per il mare–inferno
rappresentato dal primo Novecento, gli dà anche la forza, così rara, della
indifferenza quasi totale, quasi assoluta, trasformandolo in un barometro quanto
sensibile tanto inutile: sordo. La sua “filosofia”, pratica, diremmo socratica,
consiste, in primo luogo, in un non attaccamento a niente e a nessuno, neanche
alle donne che gli vengono incontro, ma rimanere molto vicino al mare, come ad
una istanza altera, simbolo del fluire nel vuoto, ondeggiando, così, sull’oceano
inutile di una esistenza che pare piuttosto una non-esistenza.
È, mi pare, una specie di vendetta a posteriori del destino del grande amico,
suicidato ai soli ventitré anni. È proprio lui, Enrico Mreule, la persona più
indicata, pre-destinata, così come ci fa credere l’autore in tante avvertenze,
in tanti accenni disseminati nel libro, per seguire le tracce del pensiero
michelstaedteriano: prendere su di sé la responsabilità della sua vita, “come
l’abbia a vivere per giunger alla vita…; deve creare sé e il mondo, che prima
di lui non esiste: deve essere padrone e non schiavo della sua casa”, in quanto
ugualmente si impone. Avvertiva il Goriziano: “Non c’è cosa fatta, non c’è via
preparata, non c’è modo o lavoro finito per quale tu possa giungere alla vita,
non ci sono parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear
tutto da sé, nel non adattarsi a nessuna via…”.
L’unica vera “colpa” del protagonista sarebbe di non aver scelto la morte
dell’amico; ma non è questa la grandezza del personaggio la cui figura sembra
filtrata dalla Biblioteca kakaniana mitteleuropea?. E, forse, con qualche influsso
bizantino, ricordando un poco le strutture nastratiniene di una letteratura orale
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che circolava – e circola ancora – in alcuni paesi dei Balcani, sicuramente nel
mio, come vere e proprie modalità di difesa: contro il male storico, contro la
stupidità, contro l’ignoranza dei padroni, di ieri ma anche d’oggi e di domani,
contro la sfortuna, contro tanti dèi arrabbiati, non si sa mai per quale motivo,
anche, per dirlo con le parole di un personaggio creato da un grande scrittore
romeno, il precursore di Ionesco, Caragiale, contro l’Europa, che, ahimè, “ci
guarda, ci guarda…, e, in definitiva, cosa vuole da noi questa Europa”?
Per Claudio Magris, uomo di confine ancora una volta, creatore straordinario
di un mondo sottratto alla storia così paradossale e insieme affascinante, oltre
che assurda e, quindi, quasi indecifrabile, questo suo Un altro mare ci ricorda,
tramite l’indimenticabile protagonista, risuscitato dalla “biblioteca” goriziana,
un altro autore romeno, Cioran: non solo perché si possono trovare tante
similitudini di idee fra egli e la coppia Enrico-Michelstaedter, tra cui basterebbe
ricordare soltanto l’elogio del suicidio, ma soprattutto perché, in molti degli
scritti cioraniani del periodo romeno, egli parlava di un progetto di “uomo
senza destino”.
Figura di un “meteco”, se prendiamo soltanto il significato più elevato
del termine, Cioran si avvicina, almeno per un lettore romeno, come io
sono, al protagonista di Un altro mare, che sarebbe, non dimentichiamo, un
gemellaggio Michelstaedter-Mreule: il difensore della sentenza marcaureliana
“L’inconveniente di essere nato”, autore di tante riflessioni amare temperate
dal sorriso e dall’ironia del saggio, egli rimane anche uno spietato decostruttore
di sistemi e mode passeggere, uno smascheratore di ogni assurda pretesa di
spiegare il mondo, un esule condannato a un destino di solitudine e inattualità,
approdato (parola-chiave per la scrittura di Magris) ad un nichilismo devastatore,
ma orgoglioso e cosciente, dandy e misantropo. La più grande provocazione di
Cioran resta, forse, la contemplazione impietosa e lucida della propria miseria e
delle grandi finzioni intellettuali, animato dalla tentazione dell’assoluto e dalla
coscienza della vacuità del tutto.
Ma forse Cioran, ossessionato, com’era, della costruzione di se stesso, non ha
saputo cercare la prova dell’altro. Anche se quest’altro si identifica con un
mare. E non mi pare del tutto inutile aggiungere che Cioran appartiene, anche
lui, ad una geografia mitteleuropea, cosi cara e così intima a Claudio Magris.
George Popescu

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